falafel
Conosco un posto...

La merenda più felice

Hai avuto un’infanzia felice quando il solo parlarne ti fa lacrimare gli occhi. Sapere che quel pezzo di percorso l’hai vissuto davvero in tutto il suo splendore ti rende leggero dentro.

Sapere che hai esplorato senza limiti, che hai giocato fino allo sfinimento. Sapere che sei ancora segnato dalla testa ai piedi dai ricordi delle tue ferite di gioco, quando le tue ginocchia non potevano non essere nere, quando giravi libero per i quartieri con un sacco di amici (e anche qualche nemico), quando ti lasciavano a vagare per ore senza sapere dove fossi o con chi, in quale torneo di gioco fossi finito o con chi ti stessi scontrando. Sapere di aver poggiato i piedi su ogni centimetro di terra fertile del tuo paesino. Sapere di aver partecipato a infiniti e coraggiosi assalti agli alberi da frutto, che inevitabilmente finivano in scorpacciate di tesori della natura: mele, albicocche, fichi – quanti fichi ho mangiato! – limoni e arance. Sapere che, quando non potevi arrampicarti, ti abbassavi per raccogliere pomodori, cetrioli e ravanelli.

Ricordare il piacere malcelato che ti dava la rabbia dei tuoi genitori quando rientravi a casa sporco, infangato, o appena dopo che i poverini avevano ricevuto l’ennesima telefonata furibonda del contadino di turno dopo l’assalto ai suoi alberi.

Allora eri felice perché la tua infanzia era uno spazio infinto, perché l’unica cosa impossibile, inimmaginabile allora, era la noia.

Quando il tuo dopo scuola era fatto di amici fedelissimi uniti da un giuramento di fratellanza, di una moltitudine chiassosa di cugini, di karatè, di nuoto, di dabke (ballo palestinese), di avventure, di innamoramenti quotidiani. Ogni giorno al massimo, ogni giorno guardato con occhi nuovi.

Anche a scuola avere il massimo dei voti era solo un gioco. Mio papà, che insegnava nello stesso complesso dove studiavo, non capiva perché insistevo per andarci a piedi con gli altri e non approfittavo del suo passaggio in macchina. Ma a me piaceva troppo camminare verso la scuola, adoravo quello sciame di bambini sghignazzanti sulla via per l’istituto, dove le merende consegnateci dai nostri genitori venivano mangiate ancor prima di entrare in classe.

Qualsiasi merenda potessero prepararci le nostre madri, comunque, il re della ricreazione era lui, il panino di falafel.

Ammo Mahmud era il bidello della scuola. Aveva una Ford Transit alla quale aveva tolto i sedili dietro e ogni giorno la posizionava davanti al cancello di ingresso. Durante la ricreazione spalancava gli sportelli posteriori, si appoggiava su una seggiola bassa e cominciava a friggere. Quanto era agile e veloce quell’uomo.
Aveva le pita già aperte, appena scolava le polpette di falafel dall’olio ne inseriva 5 in ogni pita, che poi veniva schiacciata con le mani e, quindi, riaperta per far spazio all’insalata. La sua era un’insalata araba classica: pomodori, cetrioli, cetriolini, olive, menta, erba cipollina e prezzemolo.

Nel suo falafel fumante e croccante si sentivano, oltre ai ceci, gli aromi della cipolla e del cumino, del prezzemolo e del coriandolo. Era un falafel genuino, che sapeva di tenerezza. Ammo Mahmud ci conosceva tutti per nome. Si vedeva che a noi ci teneva, e anche noi lo amavamo molto.

Una volta pronto il panino ti chiedeva se ci volevi la shatta (pasta di peperoncino). La tahina la metteva lo stesso a tutti, non concepiva il fatto che qualcuno potesse non gradirla.
Non esisteva una fila davanti al suo furgone, accaparrarsi un panino era più che altro una questione di determinazione e velocità, ma non solo: dovevi comunque avere le corde vocali più prestanti di quelle dei tuoi compagni.

Il suo era un mestiere sacro. Noi tutti amiamo pazzamente il falafel perché in ogni occasione gioiosa della nostra infanzia trovavamo, parcheggiata poco distante, la mezza carcassa tedesca del furgone di Mahmud con gli sportelli spalancati e lui impegnato a friggere davanti a due pentole di insalata e poco altro.

Si piazzava ovunque per offrire questo sacro servizio a noi piccoli, specialmente fuori dai matrimoni nei quartieri, dove spesso ci imbucavamo per giocare e divertirci senza invito. Il suo panino è il nostro ricordo più bello di ogni matrimonio.
Oggi Ammo Mahmud vive di rendita.

Se solo sapessi che fine ha fatto il suo furgone proporrei, a ragion veduta, di inserirlo nel museo della città.

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