Hummus? Passaporto, prego
Quando si parla di proprietà intellettuale o culturale si entra, per definizione, in un ginepraio. Se cerchiamo di estendere questo concetto e di ragionare su Palestina e Israele, poi, il nodo diventa ben più difficile da sciogliere.
Non mi soffermerò, per il momento, a parlare di confini geografici. Quello che cercherò di fare, invece, è riportare il ragionamento su qualcosa di molto più immediato, tangibile e quotidiano, come un semplice pasto tra le mura di casa. Sì, stiamo parlando ancora di hummus… ma non solo.
Andiamo con ordine. Studiosi e intellettuali sono concordi da tempo nell’affermare che la cucina di ogni nazione abbia molto a che vedere con il modificarsi e l’affermarsi delle contingenze storico-culturali che, via via, hanno contribuito alla creazione della nazione stessa.
La tradizione culinaria di ogni Paese, insomma, è tutt’altro che casuale. Oggi sappiamo – ad esempio – che in questa o quella zona geografica ogni pasto è accompagnato da questo o quel cereale in base a un incastro storico originale e precisissimo di disponibilità in natura, clima favorevole, religione, costume e così via.
In generale, comunque, il cibo ha un ruolo fondamentale quando si parla di appartenenza culturale. Insomma, provate a dire a un napoletano che la pizza l’hanno inventata a Milano o a un francese che lo champagne migliore viene prodotto in Australia. O meglio, non fatelo se ci tenete alla pelle.
Ironicamente (si fa per dire), però, quando questo accade in Palestina la reazione del mondo è ben diversa.
Far conoscere e apprezzare la cucina palestinese in Occidente è un compito particolarmente complesso. Ed è così, se non altro, perché prima di far assaggiare squisitezze come l’hummus, il tabbule o il mottabal bisogna superare una barriera di disinformazione che sfocia, purtroppo, spesso nell’indifferenza.
La cultura e l’identità palestinese sono minacciate in maniera continua dal governo israeliano. La distruzione di numerosi siti storci e archeologici (a braccetto con la ridenominazione di un’infinità di luoghi, il saccheggio o la distruzione di archivi e biblioteche e la creazione di leggi e regolamenti che rendono, di fatto, impossibile la libera espressione artistica e culturale dei palestinesi…) sono solo il primo passo di quello che qualcuno definisce un tentativo di genocidio culturale in piena regola.
Come se tutto ciò non bastasse, sempre più spesso vediamo pubblicizzati programmi, ricettari o ristoranti che propongono hummus e tabbule come “cibo israeliano”. E questo è inaccettabile.
Il punto qui, credetemi, non è assolutamente definire l’hummus una “proprietà” palestinese. Se allarghiamo la lente con cui guardiamo la questione, infatti, e inseriamo queste etichette in un contesto di scientifica e intenzionale distruzione delle radici culturali del popolo palestinese, non possiamo non accorgerci di quanto sia svilente, pericoloso e, in ultima analisi, sbagliato promuovere questo tipo di definizioni.
Insomma, l’hummus non è e non può essere definito “cibo israeliano”.
Un commento
Wilma Galbardi
Bravo Iyas ti seguo
Far conoscere la tua terra e le sue tradizioni è una bellissima idea…..auguri x questa tua nuova iniziativa ….un abbraccio