Abu il Afye, Yafa e la fame di storia
Perdo la concentrazione quando ho lo stomaco vuoto. E anche quel giorno, prima di arrivare da Abu il Afye, non ero per niente concentrato.
Ancora oggi non capisco come mai, tutte le volte che arrivavamo a Yafa (Jaffa) era già quasi ora di pranzo.
Avvicinarsi alla torre dell’orologio era una sorta di campanello d’allarme…: «Papà, mangiamo adesso però!». E invece no.
La città era affascinante e per mio padre era un libro aperto. Sapeva tutto, ma proprio tutto. Passando accanto a strade, angoli o pietre che considerava interessanti, rallentava per assicurarsi la nostra attenzione e cominciava a parlare, a spiegare.
Dopo tutti questi anni, credo che per lui fosse in qualche modo un ripasso, un esercizio personale per mettere alla prova la sua preparazione sulla storia di Yafa, la città dove avrebbe voluto crescere. Non comprendeva le mie difficoltà nel seguirlo, non si accorgeva che in quei momenti avevo la testa altrove.
Anche quella volta, impassibile, andava avanti a spiegare, raccontare e indicare posti, case, palazzi e vie. Soffocavo. Ero impaziente. Avevo fame.
Non era un buon momento per raccontarmi di nuovo di come mio nonno era stato costretto a scappare dalla città a piedi nudi, con nonna e zia Mifuz, di appena pochi mesi, stretta fra le braccia.
Non era un buon momento per indicarmi dove, ipoteticamente, se gli israeliani non avessero fatto scappare i palestinesi, dopo due anni sarebbe nato anche lui, mio padre. E qualche anno dopo anche io, mi veniva da pensare.
Era terribile sentire parlare della Yafa di allora, di prima del ’48, di quando era la capitale economica e commerciale della Palestina. Ed era ancora più terribile a stomaco vuoto.
Prima del ’48 la città era piena di scuole, di case editrici che sfornavano libri, riviste e quotidiani, di teatri, di conservatori, di cinema. Yafa aveva il più grande porto del Medioriente. Era così da migliaia di anni.
Il racconto continuava, ma io avevo sempre fame. Non che non mi interessasse, sia chiaro, avrei ascoltato tutto molto volentieri… ma in un altro momento. Non così. A stomaco vuoto no.
Ma lui continuava. Mi raccontava che mio nonno era un piccolo commerciante, che gli avevano bruciato la casa e il magazzino. Mi raccontava che aveva perso tutto ma che scappando aveva pensato di non allontanarsi troppo da Yafa perché credeva che prima o poi sarebbe potuto rientrare, recuperare tutto. Magari dopo qualche settimana. E allora aveva cercato un rifugio a Baqa, poco lontano. Una cosa provvisoria. Talmente provvisoria che è proprio lì che sono nato io, come tutti gli altri 54 discendenti di mio nonno.
Il momento in cui mio padre cercava parcheggio, quel giorno, mi aveva dato il colpo di grazia. Lunghi minuti di amari discorsi su come la città era stata trasformata in un piccolo quartiere periferico a sud di Tel Aviv, con pochissimi arabi residenti. Gli altri sono arrivati negli anni ’50, occupando quel che era rimasto in piedi dalla città distrutta. Hanno cambiato i nomi delle vie, dei palazzi. Hanno riscritto tutte le targhe in ebraico. Le moschee più “fortunate” sono diventate musei, le altre dei bar.
La storia è stata riscritta per soddisfare i nuovi arrivati.
Le ultime battute della lunga e amara spiegazione di mio padre erano sempre sulle esportazioni di Yafa, e così era anche quel giorno: «agrumi in tutto il mondo! Il porto dava lavoro a tanti arabi che venivano da ogni dove, che la raggiungevano per cercare lavoro in diversi stagioni…». Ma fortunatamente, ormai ero lì, davanti al bancone. Era come se fosse il mio stomaco stesso a tirare un respiro di sollievo. Finalmente mi sono messo in fila per i Manaqish. Solenne, pronto.
Non ero in un semplice panificio, ero NEL panificio, Abu il Afye. Signori, finché questo posto esisterà, nessuno potrà rinnegare il cuore arabo pulsante di Yafa.
Abu il Afye vende più di cento varietà di prodotti cotti al momento nel suo vecchio Tabun (il forno a legna e pietra tradizionale palestinese). Gli anni sono passati da quel giorno, ora lì dentro cuoce di tutto, dal più povero pane arabo alla più chic baguette francese.
Il forno esiste dal 1878, e da allora i re della produzione rimangono i Manaqish. Sembrano delle piccole focacce condite con olio evo locale e Za’atar, la miscela di erbe preferita di tutto il Medioriente. Fidatevi, il profumo è davvero travolgente.
Immaginate di mettere insieme origano, timo, sale e salvia in un macinino. E poi di aggiungere al trito verde del sommacco e del sesamo pregiato tostato.
Ecco lo Za’atar. Questo condimento palestinese non si prepara in casa: come da tradizione, dalle mani dei maestri delle spezie ne esce una versione molto migliore. È l’essenza della terra della Palestina e delle sue erbe.
Oggi come quel giorno, su ogni piccola focaccia spalmata abbondantemente di Za’atar e olio extravergine si ricostruisce, nella mia testa, la storia di Yafa.
Di colpo la vedo con occhi diversi. Il racconto si mescola al profumo di Za’atar. Ancora prima di alzare lo sguardo dopo il primo inebriante boccone, scopro che in realtà ho ascoltato ogni parola del racconto di mio padre. Forse lo stomaco erano altrove, ma il cuore era per lui. Per la nostra storia, per la sua Yafa, per quella dei nonni, per la mia.
Abu al Afye, è storia. E il racconto di chi è rimasto in quella città solo per raccontarla.
2 commenti
Fabio Bix
Bello leggere le tue “memorie” . È unodo di continuare il viaggio. O di iniziarlo.
Grazie
Elisabetta
Un viaggio nella terra, quella terra mediorientale che entra dai piedi, dagli occhi accecati dal sole, dal gusto misterioso e sorprendente di sapori che raccontano la storia…grazie!
Ora sono curiosa di assaggiare!!!